“Voglio un paese”
l’intervista per Eurodrama

L'intervista che Gilda Tentorio (traduttrice dal greco del testo "Voglio un paese", che abbiamo portato in scena il 18 marzo 2018 a Carrozzerie N.O.T) ha raccolto per noi per la Rivista Eurodrama

Fonte : https://eurodramcomitaliano.wordpress.com/2018/04/10/intervista-ad-alessia-oteri-compagnia-metis-teatro-regista-di-voglio-un-paese-carrozzerie-n-o-t-di-roma/

 

Il testo teatrale Voglio un Paese di Andreas Flourakis (traduzione dal greco di Gilda Tentorio), che ha superato le selezioni Eurodram 2017, insieme agli altri due vincitori, sarà pubblicato nel volume Drammaturgia Europea Contemporanea– Eurodram 2017, a cura di Stéphane Resche e Erica Faccioli, Editoria&Spettacolo, Spoleto 2018.

Qui di seguito proponiamo l’intervista raccolta da Gilda Tentorio ad Alessia Oteri (compagnia Metis Teatro), che lo scorso 18 marzo ha curato la regia dello spettacolo presso le Carrozzerie n.o.t. di Roma.

GT: Per una strana coincidenza – ma forse voi gente di teatro per queste cose avete le “antenne” – mi hai contattata proprio mentre ultimavo la traduzione dell’opera di Flourakis. Puoi raccontarmi come sei venuta a conoscenza del testo e le ragioni che ti hanno spinta a volerlo mettere in scena?

AO: Quest’anno con la mia compagnia Metis Teatro ci siamo dedicati al teatro moderno e contemporaneo (Bogosian, Boytchev, Crimp, Spregelburg, Kermann). Dopo aver letto il lavoro di Flourakis Esercizi per ginocchia forti, segnalato dalla UILT (Unione italiana Libero Teatro), siamo rimasti affascinati dalla sua scrittura e dall’attenzione alle tematiche contemporanee. Poiché siamo un gruppo di lavoro molto numeroso, abbiamo cercato un altro testo che rispondesse alle nostre esigenze: l’Autore si è dimostrato molto disponibile ed eccoci approdati alla traduzione italiana di Voglio un paese. Il testo ci ha subito attirati per le tematiche, la polifonia delle voci e i tanti registri interpretativi che permette.

GT: Come si è svolto il lavoro sul testo? Quale tipo di “mediazione” esiste fra la lettura e la messa in scena?

AO: Naturalmente la prima fase è la lettura e lo studio integrale. Poi abbiamo lavorato in particolare su alcune scene per noi maggiormente evocative. Isolando alcuni passaggi del testo, abbiamo poi proceduto attraverso improvvisazioni, per lo più corporee, a cui seguiva sempre una restituzione verbale del gruppo. Dunque una riflessione  dapprima corporea, emotiva, e poi verbalizzata, su concetti che sono assolutamente universali: cosa rappresenta per noi il Paese, che cosa evoca in noi la parola Paese.

GT: Nella didascalia iniziale, alla voce “Personaggi”, l’Autore indica in modo spiazzante e forse ironico: “Tutti”. Questo lascia al regista ampi margini di libertà. Come avete risolto l’aspetto polifonico del testo?

AO: La polifonia delle voci è uno degli aspetti che ci ha maggiormente colpiti. È molto difficile per noi trovare testi che possano rispondere a un gruppo numeroso come il nostro. Infatti le scritture drammaturgiche (con esclusione dei classici) contemplano un numero di personaggi limitato. Di conseguenza realtà laboratoriali e di ricerca come la nostra sono spesso tagliate fuori dalla possibilità di mettere in scena autori contemporanei interessanti, più orientati al monologo. Il testo di Flourakis è una grandissima scommessa, un testo coraggioso, che al suo debutto in Grecia ha previsto un cast di 65 interpreti, dunque scritto e pensato per una polifonia di voci.

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GT: Seguendo l’onda del testo, avete individuato ritorni di voci, iterazioni, profili di personaggi, caratteri o tipi?

AO: Solo a tratti. Alcune battute sono state attribuite agli stessi interpreti unicamente per coerenza drammaturgica. Individuare delle personificazioni troppo dichiarate (il cinico, l’idealista, il sognatore) avrebbe a nostro avviso asciugato e ridotto il testo a una tipizzazione che rischiava di ridurre la sua potenza espressiva. Si tratta di un canto corale, e tale doveva restare. Non abbiamo quindi sentito la necessità di individuare dei “tipi” troppo riconoscibili per il pubblico. E d’altra parte nell’universo fluido del testo, come pure della vita, il cinico può diventare sognatore un momento dopo. Ed è questo movimento polifonico delle voci e delle reazioni che rappresenta a nostro avviso uno tra gli aspetti più potenti del testo. Questa intuizione ci è parsa rafforzata dalla stessa scrittura di Flourakis, spesso spiazzante, con continui cambi di registro all’interno di una stessa sequenza, l’aspetto più difficile e al contempo una sfida affascinante.

GT: Il testo è stato scritto in greco nel 2013 e parte da un’urgenza espressiva che riguardava la situazione greca. Avete dato allo spettacolo un “colore” greco oppure più neutro-universale?

AO: Il testo ha valenza universale. Pur mantenendo chiaramente nella scrittura un forte riferimento alla Grecia e alla sua situazione socio politica, vi abbiamo ritrovato richiami a quanto succede oggi nel nostro Paese. Ma il testo assume una valenza che va oltre i fatti contingenti. Si parla di concetti universali: il rapporto con la propria terra, con quanto di identitario questa rappresenta e porta con sé, l’utopia di un luogo non-luogo che possa affrancarci dal quotidiano, dare a ciascuno un respiro di libertà in linea con la propria etica e il proprio sentire. Di contro però proprio la polifonia non esclude un respiro dissacrante e talvolta cinico. Battute come “Voglio un paese che poi non mi ucciderà” per me, per noi, hanno rappresentato una chiave di accesso che è universale e appartiene a tutti i popoli.

GT: Le indicazioni nel testo sono pressocché inesistenti, salvo per la dicitura “Azione”. Come avete operato a livello scenico?

AO: La scenografia, come spesso nei nostri spettacoli, è stata piuttosto scarna, e in questo caso minimale: alcuni oggetti di scena, come le valigie (indicate dall’Autore), qualche sedia.
Il testo di Flourakis sembra scritto sul campo, in armonia insieme a un gruppo di lavoro. E infatti proprio laddove l’Autore indicava “Azione”, era quello il momento in cui io da regista (e da spettatrice) avrei richiesto azione: la scena cioè esigeva un movimento, un’azione per spezzare e insieme rafforzare la parola. D’altra parte Flourakis non indica che tipo di azione (salvo pochi casi: le valigie, la cioccolata), lascia alla voce degli interpreti e al disegno di regia la scelta. Incontriamo generalmente testi con lunghe e dettagliate didascalie sui movimenti scenici oppure, soprattutto nei testi contemporanei che nascono da un lavoro sul campo, salti di registro che è difficile colmare. In questo caso avevamo soltanto delle indicazioni di “ritmo”, da riempire con quello che il testo ci evocava.

GT: Quali sono state le reazioni del pubblico?

AO: Il pubblico ha apprezzato molto lo spettacolo. E soprattutto il testo, che è difficile e potente. I commenti infatti sono stati quasi tutti sul testo. Questo ci ha gratificati e lo abbiamo letto come il segno di un buon lavoro e un buon allestimento.

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Parlano alcuni attori della compagnia Metis Teatro.

Manuela Cimino: Prendere parte a questo lavoro è stato come intraprendere un viaggio alla ricerca di sé, per poi scoprire che le nostre aspettative e timori sono in fondo quelli dei nostri vicini. Il testo è una sorta di manifesto moderno che si fa portavoce di timori, speranze e sogni dei giovani. “Qui non c’è futuro per noi”, “Dobbiamo con urgenza trovare un altro Paese”: è in questo attimo di lucidità che parte la ricerca, irregolare e incostante, di qualcosa di nuovo, che a tratti si colora di tinte infantili e giocose raggiungendo momenti di grande consapevolezza e malinconia. Ma cosa vogliamo, realmente, da un Paese? Difficile trovare una risposta. Una soluzione potrebbe essere quella di disfarsi del vecchio per abbracciare il nuovo e un Paese nuovo. Emigrare. Andare a cercare la propria strada all’estero, per realizzare i propri sogni. Tuttavia la soluzione non è altrove, ma occorre cercarla dentro di sé. La definizione di un nuovo Paese e di una nuova identità può essere raggiunta solo a partire da una identità personale rinnovata. Il Paese ideale non esiste. Un Paese “bello” non significa nulla. Il Paese sono, anche e soprattutto, IO, che faccio parte di una polifonia anonima di giovani (attori) che dapprima gridano i loro sogni senza speranze e poi, in una fase più matura, capiscono di poter creare un Paese “diverso”, in prima persona, riflesso del nuovo e rinnovato “io”.

Tiziana Mezzetti: Ho lavorato sulla perdita di identità, conseguente allo spaesamento che ciascuno di noi ha provato, per esempio nei passaggi cruciali della propria vita: la nostra vecchia identità deve morire per lasciar posto alla costruzione della nuova identità, che in fondo è un po’ morire a se stessi. Nell’antichità era la comunità ad assistere ai riti di passaggio e ad accompagnare l’individuo nelle fasi cruciali della sua vita; oggi invece l’individuo è solo, il Rito oggi è il Teatro, che ha la capacità di traghettarti in mondi possibili e permette di dare senso al mondo, di trascendere e rendere sacro ciò che appartiene al contingente. È per questo che a Teatro anche le azioni quotidiane divengono “atti psicomagici”, “azioni rituali”.
Una frase che mi ha colpito molto è stata “Il mare è un pezzo di ghiaccio”: ho sentito che quel mare congelato ero io, le mie emozioni ingabbiate. Se non opponi resistenza tutto fluisce, anche le lacrime scorrono e il ghiaccio si scioglie, allora è possibile anche trovare il tuo faro…

Attilio Caccetta: “Voglio un paese” di Andreas Flourakis ha rappresentato una grossa sfida e mi ha dato la possibilità di poter ragionare sulle difficoltà della Grecia in questi anni difficili: la voglia di lasciare il proprio Paese, e da una tabula rasa creare un nuovo mondo, più bello e più sereno, con regole, strutture, pensieri nuovi.
Leggiamo il testo. Tutte le parole hanno un certo peso e un certo effetto. Anzitutto occorre fare memoria, tutti insieme. Poi cominciano le prove, ripetiamo tutti insieme le nostre battute, ancora una volta. Un attimo, però, aspettate, tutti fermi: qui c’è scritto Azione. E quindi che facciamo? “Azione”. Ma Azione può dire tutto e niente, l’alfa e l’omega. Ragioniamo, ognuno ripeta le sue battute. “Un Paese che contenga tutti i continenti”, dice uno, “Le spiagge dove andremo saranno sabbiose e con i fondali bassi” ripete l’altro. E allora ecco, tutti con la valigia in mano, in cerca di un nuovo Paese, di una partenza, di un nuovo arrivo, tutti quanti a sognare. Valigie che si aprono e dalle quali prendiamo gli oggetti a noi cari, sono oggetti semplici, ma pieni di significato e di vissuto, che ci accompagneranno nel nuovo Paese. È un sogno, quello che cercano i personaggi di Flourakis, il desiderio di cambiare e di migliorare. Ma quel sogno poi svanisce, allora si ritorna alla vita di ogni giorno. Continuiamo a ragionare, ma di nuovo eccoci a sognare: un Paese leggero, paradisiaco, che ci dia soddisfazioni, che ci faccia crescere, un Paese che ci aiuti, che ci sostenga in tutto e per tutto.
Ma questo Paese esiste veramente? Forse conviene cercarlo. E allora cercatelo sul serio, ragazzi. E quindi tutti a cercare, tra i capelli, sotto le magliette, sotto i piedi e, perché no, andate in mezzo al pubblico, interagiamo con loro, andiamo sotto le sedie, o in mezzo alle loro gambe.
E alla fine l’avete trovato? Non lo so, forse è meglio se mi sdraio. Ecco che ritorna il sogno. Penso a quello che vorrei, un Paese dove posso dormire tranquillo, un Paese che sembra quello che mi raccontava la nonna nelle sue favole dorate. Un paese bello.
Bello però non esiste. Quindi, buio. E arrivederci, al prossimo spettacolo, al prossimo Paese immaginario!

Gilda Tentorio

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