E iniziamo
dalla nostalgia

Dalla memoria del pc, appunti, pensieri, che hanno accompagnato questi 4 mesi. I testi sono andati in scena e bene, nel nostro piccolo. Ho piacere a condividerli. Erano lì da tanto.

Ottobre 2016

E iniziamo dalla nostalgia.
Ho scelto i testi. No. Meglio. Ho scelto due dei testi.

Ballo al Kremlino – che chiude la trilogia su Malaparte. E uno studio sul teatro italiano degli anni 20 e 30 del Novecento. Quel teatro lì. A contatto con la regia nascente, il solito di cui straparlo. Perché l’ho studiato, perché l’ho amato, perché è quello che conosco meglio, perché è quello con cui dialogo.

Parlo con i maestri, quando affanno a trovare un senso, e dall’aneddotica dei miei appunti interiori prende forma in un’alba indefinita e sospesa (e come sono immense queste sospensioni nel nulla) Almirante. Luigi Almirante, l’attore, il primo Padre de I sei personaggi con la direzione di Niccodemi ma in realtà dello stesso Almirante.

Che mica l’ho mai visto ovviamente io Almirante. Al più forse in qualche medaglione sulle Enciclopedie alla Biblioteca Nazionale voce “Attori” “Attrici”. Sbiadito, in bianco e nero, su carta giallina consunta dal tempo.

Da sfogliare con attenzione, con delicatezza. Con nostalgia. Poi nei miei discorsi interiori eccolo Almirante. A colori, in quell’alba indefinita e sospesa che parla all’attore Barnabo: vedi dice smemorandosi di fronte al volo dei gabbiani, è che io, io saprei come mettere le ali, è che ancora non ho trovato il modo di attaccarle. E me lo vedo lì. A colori, in quell’alba indefinita. Sulla prua della nave che li avrebbe portati in tournée in Sudamerica: lui, Almirante, e Barnabò, che chissà perché me lo figuro piccolo, lì accanto.

Almirante e Barnabò, in una mattina di cielo terso, i gabbiani che volano, lui che si smemora, ed io che puntualmente mi commuovo. Mi commuovo a quel volo che Almirante non compie ma immagina. Mi commuovo a Barnabò li accanto che non capisce e ha anche freddo, eppure si smemora un po’ anche lui, e me lo immagino minuto questo Barnabò, a volare un po’ anche lui, e a non avere i mezzi per farlo.
Poi Almirante si mette la sua giacca striminzita e se ne va . E Barnabò lo segue – anche se un po’ a distanza – lo segue con lo sguardo quest’uomo incomprensibile che ha detto una cosa incomprensibile eppure affascinate: vedi io saprei come mettere le ali eppure non ho ancora trovato il modo di attaccarle.

Sta lì ancorata alla mia aneddotica interiore questa immagine di una intervista “Al primo padre” di Gianmatteo e Taviani. La lessi forse dieci anni fa. E è sempre lì. Come la Pavlova che saliva sui tavoli e recitava di spalle, come Pirandello che usciva dalla porta secondaria del Teatro Valle dopo la prima dei Sei personaggi, manicomio manicomio, e tutti a lanciare monetine  e lui al braccio della figlia Lietta.

Ballo al krelino è a pagina 34. Ignoro se sia un testo rappresentabile sulla scena. Se abbia la potenza di Pelle e di kaputt. I ragazzi nicchiano, si fidano e non si fidano, temono kaputt punto due, hanno ancora troppo vivido il ricordo. Hanno ragione. Non ne so nulla.

Ho scelto i testi. O meglio. Ho scelto due dei testi dei 5 di febbraio. O meglio. Ho scelto anche gli altri ma ancora è martedi e la settimana è lunga.

Ho scelto la nostalgia e parte del mio immaginario. Ho scelto con amore.

Perché uno chiude un lavoro iniziato con i grandi e consegnato a un gruppo giovane. Che giovane chiama a gran voce di non essere più. E un  altro porta con sé il senso e molte domande. Porta la nostalgia. E porta una storia che è la mia, che è la nostra, che è quella di un cambiamento.

Buon anno ragazzi.

Novembre 2016

A piccoli passi.

Ci fermiamo a parlare sulla porta, che il giovedi ha il rituale della chiacchiera e dei valletti, i ragazzi aspettano che chiuda, ed è un’occasione per parlare della lezione, per parlare dei progetti, per spettegolare su chi non c’è, e assai più spesso su chi c’è, e per una buonanotte che è come l’ultimo bicchiere di vino, un’altra sigaretta, quella che chiude il cerchio, quella dei pensieri che ti accompagnano nel tragitto per tornare a casa, una carezza.

E stasera era sera di grandi progetti: scriviamo a quelli del Lemning, prendiamo un teatro, apriamo al quartiere.
Ma dai ma tu ti rendi conto? Ma cosa avrà Metis? 70, 100, 200 ma che dico? Siamo un esercito! E tu..tu ti rendi conto? Ma mica ci pensavi sei sette anni fa? E allora dai! Apriamo un teatro! Scriviamo al Lemning.
Eh sì, giusto 200 penso. Ridimensioniamo i numeri, pensiamo in piccolo. Perché a pensare in piccolo le prospettive paradossalmente si allargano.

A piccoli passi.

Quest’isola felice, che è isola di persone ancor prima che di qualsiasi altra cosa, è nata così: sulle sigarette fumate fuori da Via Orvieto – quando ancora eravamo a via orvieto e quella sala gialla ci sembrava il mondo, io, Polla, Monica P. 

Io avevo 32 anni e ragionavo per passione, e per inciampi. Il primo spettacolo lo facemmo nella sala di Via Orvieto, Piccole cose, recitavo anch’io, eravamo troppo pochi per sostenere un’ora, ingresso libero e con la gente seduta per terra.

La mia amica Claudia mi suggerì il nome di aspiranti non attori, lo sposai per amicizia più che convinzione, e in realtà dentro a quel nome c’era un pensiero grande: io gli attori li avevo conosciuti, ed era precisamente quello che non volevo cui somigliasse il nostro gruppo – non volevo quella retorica, non volevo quella frustrazione che avrei letto nei tanti anni in cui avrei fatto l’attrice, non volevo quella cattiveria, non volevo quel mondo.

Non amano il teatro amano se stessi nel teatro.

Quelli che amavano se stessi nel teatro sarebbero passati da Via Orvieto, e poi da Via la spezia, e poi ancora dalla sgarrupata sala di via foligno, che sarebbe diventata casa, un giorno.
Quelli che amavano se stessi io li avrei riconosciuti con un fiuto animalesco e a tratti feroce. Restavano uno, al massimo due anni, poi andavano a fare clamorosi stage con improbabili insegnanti, o si ripiegavano a vita propria, o tentavano compagnie morte sul nascere, ragazzi ma che davvero? Ma che davvero?
poi ogni tanto, qualcuno che andava via e ti diceva una cosa con un senso.

Sono andata da.

E tu avresti voluto commuoverti perché ritrovavi un senso,

allora sai distinguere, allora ti ho insegnato, o almeno ti ho restituito una differenza.

Apriamo un teatro scriviamo al Lemning, facciamo cose grandi.

Piccoli passi.

Piccole cose
100, 200, 300.

Cose grandi.

Piccoli passi ragazzi.

Piccoli passi.

Eh ma allora tu ragioni in piccolo, ma allora tu non andrai mai da nessun altra parte.

Ma che ci fai con via foligno? Almeno uno spazio che abbia due sale e una ci lavori tu e una l’affitti.

Piccoli, passi

Le cose si fanno una alla volta.

E con cura,

con cura.

 

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