Degli amatori e dei professionisti

Quando ero giovane – vabbè diciamo “più giovane” – sic, neo diplomata alla scuola di recitazione (la Scaletta di Gianni Diotajuti, dove insegnavano vecchi maestri davvero capaci di insegnare) studentessa di Lettere con indirizzo spettacolo alla Sapienza ( che avrei poi abbandonato perchè dovevo fare il teatro, allora pensiero a senso unico, come se la possibilità di fare altro levasse valore alla pratica e al mio status di attrice professionista tout-court, e che poi a distanza di anni avrei ripreso fino al dottorato di ricerca e agli anni di assistenza universitaria, meravigliosi anni di nutrimento e crescita), gli amatoriali, io, li guardavo un po’ di sguincio.

Con non troppa simpatia,
con una certa acredine ed insofferenza,
con una malcelata superiorità dettata da una non meglio classificata diversità di intenti:
gli amatoriali che facciano gli amatoriali, che non si mischino a noi “professionisti”, che sul lavoro campiamo, che sul lavoro affanniamo,
che sul lavoro ci sbattiamo alle 5 di mattina per raggiungere paesi improbabili e licei altrettanto improbabili e adolescenti più che improbabili ingovernabili, e vai di diaframma doppio spettacolo il primo alle nove il secondo alle undici, “La verità vive”, giusto il tempo di mezza sigaretta, e vai di diaframma e di emozioni alle 9 di mattina mentre l’ingovernabile studente liceale brufoloso si lasciava scappare un fischio e tu gli andavi giù ancora più incazzata e di diaframma che capissero questi quattro scaccamuffi di Priverno che tu eri Rita Atria, punto. 

Poi si faceva il silenzio. E tu benedicevi Stanislavskj, e i maestri che ti avevano insegnato, e il talento.
Un mondo piccolo, dentro una palestra, dove la voce rimbombava, e alle 12.30 già pensavi – un’altra mezza sigaretta – allo smontaggio: e leva e carica, e smonta e carica, e cammina e carica, e torna a Roma e scarica, e torna a Roma e svieni, e torna a Roma e vai alle altre prove,  e torna a Roma e manda il curriculum, e torna a Roma e vai a lezione di canto, e torna a Roma e vai alla scuola che non hai ancora terminato, e torna a Roma e mettiti sui libri, e torna a Roma con la paga del giorno.

Amatoriali.

Che ci lascino il pane. Che non ci rubino il lavoro.
Che continuino  a fare le loro Dozzine di rose scarlatte, e lascino i massimi sistemi a noi.
Che ci sbattiamo alle 5 di mattine e facciamo il teatro.

Facile avere un altro lavoro.
Facile fare le prove dalle 17.00 in avanti.

Facile avere uno stipendio tutti i mesi depositato in banca
mentre tu devi sbatterti tra il nero delle paghe e i matinéé a Priverno
e i ristoranti per arrotondare
ma tu che fa di preciso?
faccio l’attrice.
si ma voglio dire, esattamente che fai?

Domanda lecita.
Vado a Priverno. O comunque in genere dalle parti di Fiuggi.
O comunque e in genere mi faccio un culo come un secchio.

Gli amatoriali. Che se ne stanno comodi sulla loro paga al 27.
Che ci rubano il lavoro.
E fanno mezza dozzina di rose scarlatte.

E invece tu che fai?
faccio l’attrice, tout court. Campo su questo.
Faccio l’attrice punto.

Ho iniziato ad insegnare a 33 anni.
Per necessità.
Come tanti, come tutti.

Solo che il mio corso si chiamava inizialmente “aspirantinonattori”. 
Così. Un vezzo. Giusto perchè si capisse bene che non volevo mettere su piazza altri disoccupati, costretti a Priverno. Dedicato proprio agli amatori. A chi non voleva fare del teatro un mestiere, a non professionisti. Che però avessero ben chiaro in testa che erano amatori e tali sarebbero restati, amatori, appassionati, in formazione, e se possibile il teatro retribuito lo lasciassero fare a chi su quello campava perchè su quello aveva investito una formazione tout – court. Non un hobbie.

Oggi, dopo 15 anni posso dire a piena voce e con diritto che c’è ancora una confusione se possibile maggiore rispetto a quando io – ero giovane- guardavo gli amatoriali di sguincio.

Chi può dirsi amatore? Chi professionista?
La nostra classe di duri (e non più puri) prolifera di insegnanti che hanno fatto un corsino in una non meglio identificata scuola e a buon diritto e assai spesso sull’ingenuità altrui aprono scuole e insegnano.

La nostra classe è l’unica che non ha un albo. Una vera, sana, coerente qualificazione per titoli e esperienza.

Oggi ancor più di quando io avevo vent’anni ciascuno può appellarsi da sè amatoriale o professionista.

E allora per me ormai l’unica differenza è questa: amatoriale è chi non capisce il senso.

Perchè io vedo imberbi e brufolosi insegnanti farsi grandi di un titolo che non ha un albo e sull’ingenuità aprire corsi dove distribuire dispense se possibile reinterpretate da loro sul metodo Stanislavskij.
Perchè vedo e ormai ricevo (sic) curricula di gente che ha fatto il corsino possibilmente con il docente di cui sopra e si autodefinisce Attore Professionista.
Perchè vedo – e talvolta subisco – gente che si autodefinisce attore, autore, regista – e spesso è incapace di fare anche soltanto mezza di queste cose – eppure deliberatamente se ne va giro a millantare scienze.

E vedo poi meravigliosi talenti che prendono la paga al 27 e sulla scena restituiscono la loro sapienza .

E allora fintanto che non ci sarà una riqualificazione seria del nostro mestiere per esperienza, talento e titoli per me l’unica differenza lecita è questa:

Amatoriale è chi non capisce il senso.

E sono tanti.

Alessia

 

 

 

 

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