L’educazione teatrale

Il teatro non si insegna, si impara.

Queste parole – non mie – depositate nel bagaglio di una memoria di studi e letture ed immagini e maestri e esperienza,  che talvolta mi sostiene, consola, accompagna, dà forza ai miei pensieri, racchiudono un senso semplice e insieme autentico e vitale, il teatro non lo si può insegnare, quanto si può insegnare, al più, è indicare una via per impararlo. Da sè.

Quando – oggi, nel 2014 – mi chiedono “quale metodo insegni” confesso di provare – dopo  un iniziale, ingenuo, spaesamento –   nel non sapere che dire, a quale metodo mi appello? a quale maestro mi rifaccio? Mejerchol’d ? Brecht? Stanislavskij? – un non so che di rabbia. Probabilmente per ignoranza.

I “metodi” nascono sul cuore e la pelle di chi cercava una direzione, una strada, una via del tutto personale per mettere a tacere i propri dubbi, nascono e si contestualizzano all’interno di epoche storiche, vivono dell’esperienza di chi cercava di traghettare un sapere dalla scena alla scuola, perchè la scena si facesse scuola e viceversa. Contestualizzati, i “metodi” nascono nel rigore di un pensiero assai difficile da tradursi attraverso una scaletta didascalica di esercizi da tirare fuori dal cappello alla bisogna.

Anche se hai studiato in Russia.

La mia scuola di teatro – la mia personale formazione-  è fatta di buoni e cattivi maestri.

Dei cattivi ricordo poche e sommarie cose: fatti più che altro, episodi – quella volta che un saccente maestro greco mi impose di trovare uno spillo in una stanza, introvabile perchè lo conservava lui, e che quindi di fronte alla mia angoscia mi disse : bene, adesso questo pianto mettilo nel personaggio. Dopo anni ritrovai lo stesso esercizio su Il metodo dell’attore di Stanislavskij. (e neanche, per amore di studi, Stanislavskij scrisse – con l’intenzione di pubblicarlo  – un solo libro, La mia vita nell’arte). 

Dei cattivi ricordo questo oggetto misterioso ed introvabile che si chiama “diaframma” e dei più raffinati un altrettanto e misterioso oggetto che avrebbe dovuto collocarsi sulla mia fronte: il terzo occhio. E via con tutta la saga della rinascita: dal pianto fetale del bambino e discorrendo.

Dei buoni ricordo cose che hanno poco a che fare con l’insegnamento.

Di Tonino per esempio – Antonio Pierfederici –  ricordo i cappuccini che prendeva al bar.

Ricordo il loden verde,  e delle volte – delle molte volte – che si accorava perchè questo o talaltro attore non si era presentato alle prove. Ricordo quando a San Miniato si piantò sul sagrato della Chiesa e disse – perchè un collega aveva inviato un telegramma citato testualmente Impossibilitato a venire, arrivo direttamente per la prima domani  – bene, (xxxx) e allora tutti a casa!

Ricordo i proverbiali “daccapo!”

Ricordo quando talvolta se ne andava via, lasciandoci nella confusione,  ed io immaginavo che doveva essere perchè aveva intuito dai nostri sguardi di  non essere riuscito a spiegarci quale strada avremmo potuto percorrere.

Una strada che aveva assai poco a che fare con la tecnica.
E molto con dell’altro.

Alessia

 

 

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