Paparazzi

(o cronaca della nascita di un sole abortito)

di Matéi Visniec
(1997)

Siamo all’alba della fine del mondo o alla fine di noi stessi?
Christian Auger, attore e regista.

Note 

In uno scenario al limite dell’apocalisse,  dentro una notte che sembra non avere fine, si muovono personaggi – come spesso accade nelle piéce di Visniec – definiti non con nomi propri bensì oggettivati attraverso alcune loro peculiarità: l’uomo con la custodia di violoncellola donna a piedi nudi, l’uomo che ha vissuto la sua nascita come una caduta. Sullo sfondo una festa, cui parteciperà tutto il bel mondo, che Paparazzo 1 e Paparazzo 2, fotografi  mercenari, si preparano a immortalare per sempre: alla ricerca dello scoop, della sequenza perfetta.

 

Incuranti di quanto nel frattempo sta accadendo – il sole sta nascendo o scomparendo? – anestetizzati dall’immediato, dal quotidiano, colto nella sua ferocia e nella sua bellezza, primari e comprimari di questo mondo sulla soglia di una catastrofe, compiono azioni senza  un pensiero: tutto è veloce, tutto è macinato dentro una macchina oliata per salvare – apparentemente – solo chi riesce a tenere il passo della sequenza perfetta.  Ai margini e fuori dai bordi la voce del cieco, unico personaggio in cerca di un contatto, in grado di tessere ancora fila di umanità e senso.


Servendosi ugualmente del tragico, del comico, dell’assurdo e del grottesco – cifra stilistica che accompagna gran parte dei lavori di Visniec che offrono spesso vertiginosi cambi di registro – l’autore disegna qui non tanto una fotografia del reale, spesso impossibile a cogliersi, quanto gli effetti e le criticità e distorsioni che le continue manipolazioni cui gli uomini sono sottoposti comportano nel loro agire. Un agire spesso depauperato di senso critico, automatizzato, disumanizzato, su cui trionfa la perdita totale di empatia ed umanità: un deserto segnato dallo scorrere del tempo in cui a provare nostalgia e sentimenti sembrano essere provocatoriamente non più gli uomini in carne ed ossa bensì gli oggetti, capaci di parlare un linguaggio che si è perso.

 

 

 

 

 

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