Sette bambine ebree
Caryl Churchill
Teatro Furio Camillo

7 bambine, 7 scenari, 70 anni di conflitti.

Shoah, Terra Promessa, Israele e Palestina,
l’identità, la fuga, la perdita e l’interminabile
conflitto arabo-israeliano. Diritti e privazioni,
Terra e religione, Vittime o carnefici.
Comprendere, delegare, giustificare e poi
demandare. Alla storia, ai poteri più forti. Alla
religione. Alle promesse, mancate e disattese.
Cose che non si possono dire e cose che si devono
dire.
E alle bambine? Cosa dire alle bambine?
Dille e poi non dirle. E dille ancora.
Nessuna risposta. Solo domande. Tante, quelle da
porci. Immense, quelle a cui non sappiamo dare una
risposta. Da accogliere, senza scuse e senza
giustificazioni.
“Sette bambine ebree” di Caryl Churchill con un
linguaggio scarno e intenso si interroga su un
dramma umano, complesso e ancora attuale.
Un dramma corale che chiama gli adulti alle
proprie responsabilità.
Tutti.
Da qualunque parte decidano di stare.

Note di regia

Sette bambine ebree è un testo scomodo.
Un testo difficile: appena sette canti, sette brevi composizioni che hanno una struttura più
somigliante alla poesia che a una partitura per la scena e che l’autrice, Caryl Churchill, lascia alla
libertà di interpreti e registi di drammatizzare in piena autonomia.

Chiede solo che il testo venga lasciato integro, così come è stato pensato,
che non vengano quindi apportati tagli, modifiche, integrazioni con altro materiale testuale.
La tentazione è forte: perché ci si trova di fronte a questo materiale apparentemente scarno,
magmatico, evocativo che si articola solo attorno a quel Dille Non dirle.

Un coro, una voce, adulti che domandano a se stessi - agli altri? - cosa dire o non dire a sette
bambine, su un dramma che ha origine con la Shoah e che ancora non ha termine tra le macerie
della striscia di Gaza.

Un testo scomodo.
Perché impone in qualche modo una presa di posizione, feroce, sommessa, gridata, taciuta, in
quell’antinomia che percorre tutto il testo: dille, non dirle.
Dille. Non dirle.
Dal primo momento in cui abbiamo iniziato a percorrere le parole della Churchill, con la piena
consapevolezza di quanto fosse scomodo, non solo imporsi di non stare da nessuna parte, ma
tentare una lettura politically correct, abbiamo compreso quanto i livelli di complessità fossero
tali da lasciarci soli, di fronte a una scelta.

Perché per quanto lo si voglia edulcorare il testo della Churchill è stato scritto
all’indomani di un attacco che è stata l’operazione Piombo Fuso, 1500 morti tra i civili, molti dei quali
bambini.
Abbiamo studiato.
Abbiamo ripercorso la storia.
Abbiamo messo in campo, per quanto possibile, le nostre risorse:
scomodando pareri autorevoli, tentando goffamente di voler affiancare Sette bambine ad altri testi.

E alla fine abbiamo scelto di stare semplicemente dalla parte di chi, per quella pace, ha lasciato il suo
corpo sotto le macerie di Gaza, ad Auschwitz o tra le ruote di un bulldozer. Abbiamo scelto di stare
dalla parte di Vittorio Arrigoni, dell’attivista americana Rachel Carrie, morta a 23 anni nel tentativo
di fermare un bulldozer.
Abbiamo
– ho –
scelto di stare dalla parte degli oppressi.
Dalla Shoah alla macerie della striscia di Gaza. E abbiamo immaginato che sia in questa direzione
che vada anche il testo.
Perché la storia spesso è affrancata dall’ideologia.
La storia, a un certo punto, si fa cronaca.
E la cronaca succede ora, adesso.
Di fronte ai nostri occhi politically correct.

-

Perchè in questa storia non si può stare da nessuna parte.
Se non da quella delle vittime.
Di ieri, di oggi, e ancora di oggi e di ieri,
in un cerchio che sempre sembra dirci
che nessuno è innocente.
se dimentica.

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