Silens Part I e II

Foto di scena Pier Paolo Caporilli

Progetto Limine Scenari
Iniziativa Finanziata con Fondi della Regione Lazio

 

Questo testo è stato scritto sull’urgenza. Tra agosto e settembre 2020. Sentivamo come gruppo la necessità di lavorare su quanto avevamo appena attraversato come collettività. Personalmente, non volevo in alcun modo fare uno spettacolo sul covid: perché ne sentivo tutto il pericolo, la scivolosità, la retorica appena sotto la superficie nel trattare un tema facile, scontato, mentre il gruppo emotivamente premeva e ci chiedevamo dove andare. I miei 5 giorni di vacanza al mare li passai ipotizzando strategie per uscirne in qualche modo : perché non recuperare passaggi dalla letteratura, farsi scudo autoriale con i tanti racconti sulla peste, da Teucidide in avanti. Non ero sola: per quel brevissimo periodo di riapertura dello spettacolo dal vivo si moltiplicavano letture – rigorosamente monologanti – di racconti di peste. Teucidide, Manzoni, Boccaccio, Camus, Ionesco. Non avremmo né tolto né aggiunto, certo, sarei unicamente sopravvissuta io ad una data ormai fissata, impegni presi, un gruppo di lavoro che mi chiedeva dove andare.

Il passaggio all’antropologia è stato la chiave di volta allora, come oggi. A distanza di un anno, cadendo per fame di teatro nello stesso tranello (riprendiamo Silens!) oggi come allora sentivo e sento la medesima difficoltà ed urgenza. Riprendiamo Silens, si. Ma come? Raccontando, elaborando, mettendo in forma tutto quello che è accaduto in questo ultimo anno? Sarebbe – questa volta si – una cronaca aneddotica di fatti assai poco interessanti. Perché in quest’ultimo anno non è accaduto nulla a mio avviso che porti con sé la forza dirompente di quel primo strappo. Di quel primo sentirci strappata la vita, ad ogni livello.

Ripercorrendo una ad una le parole di quella partitura costruita sull’urgenza tra agosto e settembre 2020, ho – abbiamo – ritrovato intatte le emozioni di un vissuto ancora tutto da elaborare, un’onda lunga che ancora fatichiamo a governare, a leggere, a comprendere. Queste settimane di ripresa dello spettacolo sono state frastagliate, farraginose, difficili per noi, come gruppo. Volevamo rifare Silens, eppure nessuno aveva voglia di rifarlo: di misurarsi di nuovo con quella sottrazione, con quello strappo. Il discorso di Conte, il bollettino delle 18: tutto – ora – risultava anacronistico, fuori tempo, fuori margine. Eppure.

Foto di scena Pier Paolo Caporilli

Eppure quanto tutto ancora se ne stava lì, con la sua forza dirompente, a premere da qualche parte.
Non avremmo né aggiunto né tolto certo. Un anno fa come oggi. Non avremmo né aggiunto né tolto, se non il nostro desiderio di dare voce, corpo, testimonianza, di dare forma. Perché esattamente come un anno fa, è il nome da dare alle cose, il nome ed il senso.

E per questo, forse, fuori tempo e fuori margine, hanno ancora valore le parole scritte un anno per Silens – 4 e 5 Ottobre 2020. In questo teatro. In questo presente.

Pandemia. Una parola che non avremmo voluto attraversare e che ancora ci attraversa. Che ci obbliga ancora quotidianamente alla sua mappatura di numeri e dati, a fare i conti con noi stessi, con le nostre risorse, che ha stravolto le nostre vite, che con la sua ferocia ci ha rubato il presente, privandoci di un’idea di futuro, per un tempo senza tempo. Anestetizzati e increduli, di fronte a un virus che per sopravvivere ha bisogno di corpi che lo accolgano, e che è reale, ci siamo interrogati sulla portata antropologica di un evento che per quanto rimosso è ancora qui. Un ospite inatteso. Indesiderato e ingombrante. Talvolta buono, talvolta insidioso. Un ospite che giova di una narrazione a seconda della parte in cui si sceglie di stare. E la vera e unica domanda che resta inevasa, è che non c’è una parte in cui stare. Perché tutte le risposte non hanno soluzione.

Foto di scena Pier Paolo Caporilli

Non volevo fare uno spettacolo sul Covid. Perché è un tema scivoloso, retorico, difficile, perché ogni racconto rischia di farsi didascalico, perché ogni direzione va a sbattere contro il presente, un presente che ha bisogno di un tempo più lungo per essere elaborato, compreso, tradotto in un altro linguaggio.
Quando a luglio abbiamo iniziato le prove non c’era un’idea precisa. C’era solo il desiderio di dare voce, intanto con il corpo, a questo terremoto che ci aveva attraversato e che se ne stava lì a premere da tutte le parti, anestetizzato nel desiderio collettivo di una rimozione forzata, mettere tutto sotto il cuscino, come se non fosse accaduto nulla, nell’attesa di un settembre salvifico che ci avrebbe affrancati tutti dal fare i conti con quello che nel frattempo ci era accaduto attorno, e dentro.

Prendevo tempo. Cercando direzioni, alternative, provando a mettere parole, tornando indietro, ipotizzando soluzioni altre, mentre il presente premeva, anche se il mondo sembrava ballare dentro un carnevale infinito, rovesciato, una lunga vacanza senza festa.

E allora ho lasciato che la realtà mi entrasse dentro. Ho dato voce a quelle parole che se ne stavano sospese a mezz’aria. Dimenticandomi per una volta della didascalia, della retorica, della scivolosità del momento.

Perchè per costruire un’idea di futuro, è necessario comprendere e attraversare il presente.

È uno spettacolo sul Covid.
Su quello che emotivamente ci ha lasciato dentro.

Non volevo farlo.
E ovviamente l’ho fatto .

Alessia

 

 

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