L’Orologio Americano

Tante cose che sembravano fisse, e come conge­late per sempre, si stavano sciogliendo, scivolando via.   “L’Orologio Americano ” 

MetisTeatro Laboratorio presenta

L’OROLOGIO AMERICANO

di ARTHUR MILLER

 

Foto Di Paolo Sasso

 

L ‘Orologio americano di Arthur Miller è un dramma in due atti scritto nel 1980. La piece ruota attorno al tema della Grande Depressione e della Crisi che investì l’America nel 1929. E’ la storia della famiglia Baum, un tempo benestante, che a causa della perdita del lavoro del Capofamiglia Moe Baum vede restringersi a poco a poco i propri privilegi, e costretta a trasferirsi dal grande appartamento di Manhattan a uno squallido appartamento di Brooklyn, scivola inesorabilmente nell’indigenza. Il dramma si articola in continui salti temporali tra passato e presente in cui il fil rouge è il racconto sotto forma di ricordo di Lee Baum, giovane figlio di Moe e Rose Baum, e di Arthur Robertson, uomo di affari e amico di Lee che riuscì a scampare al collasso finanziario, prevedendo e anticipando gli esiti della grande bolla che investì l’America e trascinò il Paese nella più grave crisi economica e sociale conosciuta sino ad allora.

Sin qui la sinossi. Ma L’Orologio americano di là da essere solo la storia di una famiglia abbraccia tematiche ben più ampie, si parla dell’America degli anni Trenta e insieme si riflette su quei meccanismi economici che portarono al collasso il paese: le speculazioni finanziare ad opera di quei capitalisti che continuavano a immettere nel mercato azioni che si rivelarono null’altro che economia di carta per i piccoli e medi risparmiatori, la scarsità di denaro di contro alla sovrabbondanza produttiva delle merci che restavano spesso invendute nei magazzini, il crollo del valore di quelle stesse merci e contemporaneamente il progressivo indebitarsi di quanti non riuscendo a far fronte al costo della vita, non potevano far altro che affidarsi ai fidi delle banche. La crisi provocò il progressivo spopolamento delle campagne per decine di migliaia di persone che si riversarono nelle grandi città, andando a nutrire le fila di altre migliaia di persone ridotte alla fame, spesso costrette a vivere per strada, in baracche improvvisate di cartone, catapecchie di latta come le definisce il personaggio di Arthur Robertson in un passaggio del testo: Ho lavorato in molti paesi, ma lo spettacolo più allucinante della mia vita l’ho visto, credo, dalle finestre del mio appartamento al River-side Drive a New York. Sembrava Calcutta (…) Certe notti scendevo e camminavo in mezzo a loro; era incredibile lo spirito che conservavano ancora, e nem­meno a farlo apposta la gente, più che al governo, dava la colpa a se stessa. Ma non è mai esistita una società che non abbia avuto un orologio per segnare il tempo, e uno non poteva fare a meno di chiedersi: fino a quando sopporteranno tutto questo?

Miller – che conosceva da vicino la Grande Depressione – avendo a sua volta sofferto in quegli anni la perdita del lavoro da parte del padre, ci porta dentro il Sogno Americano, nelle città, nelle campagne, tra le fila di disoccupati che ordinatamente chiedevano un sussidio o un pasto caldo, e di quel sogno ci restituisce tutta la drammaticità e l’innocenza. Potrà succedere ancora? Si chiede in ultimo Arthur Robertson. La risposta inevasa resta sospesa sull’abisso di un mondo che in luogo di affinare le sue discrepanze continua ad accentuarne i contorni.

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