Studiando Visniec, riflessioni attorno a “Il teatro decomposto” e “Attenzione alle vecchie signore..”

Un teatro che ci chiama in prima istanza alla responsabilità di esercitare un pensiero critico, sempre.

Frammenti,  personaggi che si raccontano in forma di monologo  o che sviluppano dialogicamente il loro esserci in un continuum temporale difficilmente inquadrabile, ritratti corali di un’umanità tipizzata e spesso senza nome, (il passante frettoloso, la vecchia con il cesto) il teatro di Matéi Visniec, e più precisamente il teatro che si articola attorno a queste due pieces in apertura della nostra rassegna di studi dedicata all’autore romeno, “Il Teatro decomposto o l’uomo pattumiera” e “Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudine”, si presenta come un teatro fortemente percorso da elementi innovativi, che chiamano in causa non solo la partitura drammaturgica ma anche la sua ricomposizione per la scena.

Fatto inusuale, atipico.

Il segno di questa peculiarità – che ci è parsa sin da subito come una grande responsabilità e insieme libertà che l’autore concede a registi ed interpreti – è già nelle note che Matéi Visniec raccomanda ai suoi lettori e che recitano – parafraso – nessuna restrizione nell’allestire questi testi, se non l’assoluta libertà.

Quel che sembrerebbe in prima analisi una postilla, un consiglio per gli addetti, rivela tutto il peso del suo significato via via che ci si addentra nei frammenti di questo teatro modulare, apparentemente privo di quel fil rouge cui la drammaturgia ci ha abituati, non c’è una fine, non c’è un inizio, eppure non si tratta neanche di brevi atti unici, di storie che possano leggersi autonomamente le une dalle altre.

Il lettore, l’interprete, il regista, si addentra in questa apparente frammentarietà e suo è il compito di ricomporla. Ricostruire da questi frammenti di specchio – secondo la sua personale visione e lettura – una partitura di senso compiuto, che in sintesi sarà quindi anche lo specchio del suo sguardo.
Verrebbe in mente quel per ogni testo esiste una messinscena ed una soltanto che fu la grande rivoluzione che il pensiero di regia portò con sé, ma senza spingerci troppo al di là, in terreni paludosi, limitiamoci a constatare che questa unicità di allestimento che Visniéc  chiede ai suoi interpreti  è un fatto insolito, inusuale, o che perlomeno non ci è capitato di incontrare nella drammaturgia contemporanea che abbiamo affrontato in questi ultimi anni di studio e ricerca.

I pochi riferimenti autorevoli in lingua italiana che abbiamo avuto modo di approcciare in questa fase di studio (primi fra tutti i contributi della studiosa Emilia David) rimandano a una prassi scenica che privilegiando il discorso creativo rispetto alla messa in scena vera e propria si inserisce all’interno della sperimentazione del teatro di fine ‘900 che da Eugenio Barba a Jerzi Grotowski discende fino alle esperienze della Societas Raffaello Sanzio, Pippo Del Bono, Franco Scaldati, Carmelo Bene.

In sintesi un teatro che fa del “processo in divenire” il fine, lasciando in secondo piano “il risultato compiuto dell’atto artistico”. Un teatro capace di leggere e trasferire il reale sulla scena e lasciare che questo assuma una forma personale di memoria, ovvero una visione che sia uno specchio, dalla frammentarietà dei tasselli una ricomposizione che è lo sguardo dell’autore, aperta, in divenire, politica.
Ed è in questa dialettica che sembra inserirsi il teatro di Matèi Visniec, attravesro una drammaturgia  che dalla realtà distilla gli elementi che vuole mettere in luce, trattandoli in una forma talvolta onirica, surreale, grottesca, per presentarli al lettore secondo il suo privato sguardo, la sua memoria personale,  la sua ricomposizione dei frammenti. C’è Ionesco, c’è Pinter, c’è tutto il teatro dell’assurdo, c’è sicuramente il teatro scritto e soprattutto agito di questo ultimo trentennio, e soprattutto c’è la biografia e la storia personale di Matéi Visniec, autore romeno censurato sotto il regime di Ceausescu, costretto a trasferirsi in Francia per poter esercitare la sua opera.  E insieme c’è dell’altro.

E forse, per coglierlo, bisogna per un attimo svestire i panni degli studiosi di teatro e  guardarlo questo teatro dall’interno. Agirlo, e tentare di comprenderlo, attraverso il corpo vivo delle parole che prendono forma, delle pause che restituiscono un universo di senso, dei frammenti di specchio – questi sì – disseminati qua e là dall’acuta penna del suo autore, che se talvolta rimandano a suggerimenti di azione scenica, più spesso delegano alla creatività del regista, del metteur en scene, dell’altro sguardo che sempre Visniec richiama, in un passaggio per nulla scontato, che ogni volta più che un suggerimento sembra essere un invito preciso ad un atto di responsabilità e di libertà.

Un atto politico, per l’appunto.

Che questo vada ben oltre l’atto formale ne è riprova la nostra esperienza dall’interno: abbiamo incontrato il teatro di Matèi Visniec nel 2017  attraverso “Il comunismo spiegato ai malati di mente”. Abbiamo avuto il privilegio di poter avere un riscontro dall’autore, porgli delle domande in fase di studio, perché le foglie di quercia, perché Nadeja? Perché le rane? Domande sempre evase, rimandate alla nostra personale lettura.

Autore, attori, regista.

E ancora. Se il processo di ricomposizione è un atto politico e di libertà dello stesso regista e dei suoi attori, studiando Visniec, e tralasciando i pur autorevoli richiami ai suoi antecedenti e alle tematiche che ci sono parse ricorrenti nella sua scrittura , ci siamo accorti – e sempre dall’interno  – che non c’era uno e dico uno dei suoi testi che ci mettesse d’accordo tutti. Chi vedeva rane laddove erano foglie di quercia, chi Nadeja laddove era Stalin e il Direttore del Nosocomio per malati mente.
Venti teste, venti letture differenti.

Tralasciando la nostra forse comprensibile ignoranza, nell’assenza per l’appunto di una storiografia che ci supporti, un altro dato di fatto ci è parso chiaro e incontrovertibile. La nostra personale ricomposizione dei frammenti. E quindi, di conseguenza, quella del pubblico.
Autore, attori, regista, pubblico.

Se il teatro di Visniec rientra autorevolmente in quel solco che dalla sperimentazione degli ultimi anni del ‘900 ha portato a quella ricomposizione che è memoria personale dei fatti,  ci è parso – del tutto arbitrariamente è chiaro – che gli elementi innovativi del suo teatro, e meno accademicamente la sua enorme generosità di artista, il suo sguardo lucido e autentico, possa tradursi in questo richiamo di libertà, che ben oltre le didascalie con cui suggerisce azioni sceniche, ci chiama in prima istanza alla nostra responsabilità ad esercitare un pensiero critico, sempre.

Forse, e sempre in quel terreno paludoso, verrebbe da richiamare Brecht. Verrebbe, perché i pur autorevoli antecedenti della scrittura di Visniec paiono talvolta argomentazioni con cui colmare la vertigine di senso cui le parole e la sua stessa biografia rimandano.

Di fronte alla quale, per dirla con uno dei suoi personaggi tipizzati e senza nome, ci sentiamo come in caduta libera nel precipizio infinito di un padiglione gigante.

 

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